Sulla natura costitutiva della divisione alla luce delle SS.UU. n. 25021/2019

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con una storica sentenza del 2019 si è espressa in ordine alla natura giuridica della divisione ereditaria, inserendosi in un dibattito di origini risalenti ma quanto mai attuale.
Le incertezze derivanti dall’ambigua natura della divisione non rappresentano solo un’interessante materia di dibattito per gli interpreti ma si ripercuotono su molteplici istituti che nella pratica gli operatori del diritto si trovano frequentemente ad applicare, come il presente scritto si propone di verificare.

Link al testo della sentenza: http://shorturl.at/uv236

 

SOMMARIO: 1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE. 2. LA NATURA GIURIDICA DELLA DIVISIONE EREDITARIA. 3. UNA PROPOSTA DI LETTURA.

1.CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 25021/2019 si è espressa in ordine alla natura giuridica della divisione ereditaria, inserendosi in un dibattito di origini risalenti ma quanto mai attuale.
Le incertezze derivanti dall’ambigua natura della divisione non rappresentano solo un’interessante materia di dibattito per gli interpreti ma si ripercuotono su molteplici istituti che nella pratica gli operatori del diritto si trovano frequentemente ad applicare.
La Corte ha pertanto ritenuto opportuno prendere posizione in materia, dedicando alla trattazione della natura della divisione la parte più consistente della sentenza, senza tuttavia esprimere sul punto un principio di diritto, non essendo stato formulato un quesito in tal senso. Ha poi applicato le conclusioni cui è pervenuta all’istituto specifico che aveva generato il ricorso, la nullità urbanistica, senza esprimere considerazioni di sorta sulle ripercussioni che la nuova prospettiva potrà determinare sugli altri istituti connessi.
La portata della decisione e i suoi effetti a livello sistematico e pratico devono dunque essere attentamente vagliati e valutati dagli interpreti per comprendere la necessità (o meno) di rivedere l’intero sistema della divisione come fino ad oggi è stato interpretato.
Ad una prima lettura la sentenza potrebbe apparire fortemente dirompente a causa della decisa affermazione della natura costitutiva, sostanzialmente traslativa, della divisione, in contrasto con il consolidato orientamento sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità che considerava pacifica la natura dichiarativa della stessa.
Ad un esame più approfondito tuttavia si tenterà di dimostrare che la pronuncia in esame, se da un lato costituisce senza dubbio un contributo rilevante alle riflessioni dogmatiche, dall’altro non induce al cambiamento nell’applicazione pratica degli istituti coinvolti nell’atto di divisione, compresi quelli di interesse propriamente notarile.

2. La natura giuridica della divisione.

La Corte è investita della questione relativa all’applicabilità agli atti di scioglimento della comunione ereditaria delle norme in materia urbanistica. In altre parole il quesito è se gli atti di divisione relativi a fabbricati debbano contenere a pena di nullità gli estremi del titolo che ha consentito la costruzione del bene, come richiesto dall’art. 46 del D.P.R. n. 380/2001, a mente del quale “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria”.

La risposta al quesito impone agli ermellini un’accurata indagine in ordine alla natura giuridica della divisione, che condurrà all’affermazione della necessità della menzione del titolo edilizio all’interno dell’atto divisorio.

La Corte, in assenza di una definizione a livello normativo, qualifica la divisione come il contratto plurilaterale con il quale la quota ideale spettante a ciascun condividente (pars quota) viene convertita in una “porzione concreta” (pars quanta) dei beni comuni in titolarità esclusiva (c.d. “apporzionamento”); è definita inoltre un atto inter vivos ad effetti reali, con funzione distributiva, che produce un effetto costitutivo, sostanzialmente traslativo.

Prima di esaminare la definizione proposta, è opportuno premettere che le considerazioni sulla natura della divisione ereditaria sono estensibili anche alla comunione ordinaria, avendo il fenomeno divisorio carattere unitario, come la stessa Corte ha cura di precisare.

Ciò posto, la definizione fornita necessita di un’accurata e attenta riflessione per verificare l’effetto che l’innovativa presa di posizione della Corte potrà produrre a livello sistematico e pratico.

Contratto a più parti

È fuor di dubbio che il negozio divisorio rientri nella definizione di contratto ai sensi dell’art. 1321 c.c., dato il suo carattere patrimoniale; altrettanto pacifica è la sua natura consensuale, coincidendo il momento perfezionativo con lo scambio dei consensi dei condividenti.

Non altrettanto condivisa è l’idea che si tratti di un contratto plurilaterale, come invece è sostenuto dalla Corte.

Come attenta dottrina ha evidenziato (MIRABELLI, CAPOZZI), quella dei contratti plurilaterali è una categoria tipica che richiede presupposti ben precisi, oltre alla partecipazione di più parti, presupposti che non ricorrerebbero nella divisione ereditaria.

In particolare, l’art. 1420 c.c. richiede tre elementi: l’esistenza di più di due parti; la comunione di scopo; la non essenziale partecipazione di tutti i soggetti. Pur volendo ammettere l’esistenza della comunione di scopo, peraltro non pacifica, è senz’altro carente l’ultimo requisito, essendo presupposto strutturale della divisione la partecipazione di tutti i condividenti. In definitiva dunque, la divisione è un contratto a più parti ma non plurilaterale e ad esso non potrà essere applicata la disciplina sulla invalidità e impugnabilità parziale di cui agli artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 c.c.

Contratto oneroso/a prestazioni corrispettive

La sentenza in commento non si pronuncia sulla riconducibilità del contratto di divisione alla categoria dei contratti a prestazioni corrispettive o di quelli onerosi. Si tratta nondimeno di un profilo che merita una riflessione sia per l’intenso dibattito dottrinario e giurisprudenziale che lo riguarda, sia per la sua incidenza sulle considerazioni che verranno svolte più avanti nel momento in cui si valuterà l’applicabilità alla divisione di istituti che presuppongono l’onerosità del negozio (in via esemplificativa: l’attestato di prestazione energetica, la prelazione agraria e la prelazione urbana).

Il dibattito riguarda ancor prima della divisione, la stessa distinzione tra la categoria dei contratti a prestazioni corrispettive e quella dei contratti onerosi, da alcuni affermata (MESSINEO, LUMINOSO) e da altri negata (DIENER, BIANCA).

In estrema sintesi i primi, detti anche sinallagmatici, sono contratti da cui sorgono obblighi a prestazioni corrispettive, collegate tra loro da un rapporto di interdipendenza, di reciprocità.

È invece definito oneroso il contratto nel quale ciascuno dei contraenti intende, mediante equivalente, procurarsi un vantaggio, in contrapposizione al negozio gratuito, in cui un contraente intende procurare un vantaggio all’altro senza equivalente. 

Poste tali definizioni, parte della dottrina e la prevalente giurisprudenza ritengono che le due categorie non siano equivalenti in quanto se il contratto a prestazioni corrispettive è sempre oneroso, non è vero il contrario: l’onerosità indica un’equivalenza economica, mentre la corrispettività una reciprocità tra le prestazioni (ad esempio sarebbe oneroso ma non a prestazioni corrispettive il contratto di società perché i conferimenti dei soci non sono interdipendenti, confluendo nella realizzazione di uno scopo comune).

La dottrina prevalente invece considera sovrapponibili le due categorie: se c’è sinallagmaticità c’è onerosità e viceversa; né è sostenibile l’incompatibilità tra comunione di scopo (elemento tipico dei contratti di società) e prestazioni corrispettive.

Chiariti i termini della discussione, si indaga la riconducibilità della divisione a tali categorie. Sebbene vi siano autorevoli voci di segno contrario (MORELLI, OPPO, LUMINOSO), l’orientamento prevalente (CICU, CAPOZZI, DIENER) e preferibile sostiene che la divisione sia un contratto oneroso a prestazioni corrispettive: è oneroso perché ciascuno dei condividenti intende, mediante equivalente, procurarsi un vantaggio; è sinallagmatico per l’interdipendenza delle prestazioni delle parti. 

Sono tuttavia sorti dubbi in ordine all’individuazione del sinallagma: questo è da taluno rintracciato nell’interdipendenza delle rinunce fatte dai singoli condividenti a qualsiasi diritto sui beni agli altri assegnati; da altri nella interdipendenza fra le porzioni attribuite.

Contratto inter vivos ad effetti costitutivi

La divisione ereditaria costituisce, a detta della Suprema Corte, un atto inter vivos, come tale rientrante nell’ambito applicativo del D.P.R. 380/2001 (e della L. 47/1985), ambito che, come sopra visto, è limitato testualmente agli “atti tra vivi”. 

L’esclusione dell’atto di scioglimento di una comunione ereditaria dalla comminatoria della nullità urbanistica era in passato argomentata facendo leva su tre principali argomenti: la natura della divisione assimilabile a quella degli atti mortis causa; l’irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi della divisione attuata dal testatore ex art. 734 c.c. che è pacificamente esclusa dall’ambito della disciplina urbanistica; l’efficacia retroattiva della divisione sancita dall’art. 757 c.c. e la sua conseguente efficacia dichiarativa.

Ciascuno di tali argomenti viene sottoposto al vaglio critico della Corte.

In primo luogo, la tesi che sostiene la natura mortis causa della divisione ereditaria in quanto atto conclusivo della vicenda successoria e dunque non autonomo funzionalmente rispetto a quest’ultima (con conseguente attrazione della medesima natura), non è ritenuta condivisibile per una pluralità di ragioni.

La Corte articola la propria critica partendo dalla distinzione tra atti inter vivos e mortis causa, distinzione che già di per sé pone in evidenza l’inconsistenza della tesi appena descritta: gli atti a causa di morte si distinguono dai primi per il fatto che i loro effetti giuridici sono collegati all’evento morte dell’autore, del quale sono destinati a regolamentare la vicenda successoria o a disporre per il tempo successivo alla sua morte; la morte è dunque il presupposto in forza del quale si produce l’effetto giuridico e senza il quale il negozio non produce alcun effetto. 

Il contratto di divisione non rientra in questa definizione perché produce i suoi effetti indipendentemente dalla morte del de cuius, che costituisce un evento del passato, i cui effetti giuridici si sono già esauriti con la nascita della comunione ereditaria; gli effetti della divisione infatti si producono immediatamente al momento dello scambio dei consensi dei condividenti e l’unica volontà all’uopo rilevante è quella di quest’ultimi. 

D’altronde la divisione non è un atto necessariamente conseguente alla vicenda successoria, potendo gli eredi decidere di rimanere in comunione.

A ciò si aggiunga la considerazione per cui se un atto si inserisce nella vicenda successoria, ciò non implica di per sé la sua natura mortis causa: persino l’accettazione di eredità, che è atto necessario per l’instaurarsi della comunione ereditaria, non si considera rientrante nell’alveo degli atti mortis causa.

In ogni caso, secondo gli ermellini, il fenomeno successorio si esaurisce con le accettazioni di eredità, con conseguente estraneità rispetto ad esso di tutte le vicende successive.

Se ciò non bastasse, la Cassazione invoca a sostegno della sua ricostruzione il già ricordato principio dell’unitarietà della divisione che ha sempre la medesima natura (di atto inter vivos), sia che si tratti di divisione ordinaria che ereditaria, e non può mutare a seconda della vicenda che genera la comunione, come confermato dall’art. 1116 c.c. 

Per tutte queste ragioni, la divisione ereditaria, al pari di quella ordinaria, è atto inter vivos e come tale rientrante nell’ambito dell’art. 46 del D.P.R. n. 380/2001 (oltre che dell’art. 40 della L. n. 47/1985), con conseguente impossibilità per gli eredi di sciogliere, sia contrattualmente che giudizialmente, la comunione sull’immobile abusivo.

Né tale conclusione conduce a presunte disparità di trattamento rispetto all’ipotesi della divisione operata dal testatore ai sensi dell’art. 734 c.c., ipotesi pacificamente esclusa dalla normativa edilizia. 

Le due fattispecie infatti, non sono omogenee e dunque non devono essere necessariamente trattate nel medesimo modo. L’unica omogeneità che può essere individuata riguarda solo il profilo funzionale dell’apporzionamento dei beni tra gli eredi ma non attinge alla natura giuridica dell’atto divisionale: con la divisione ex art. 734 il testatore provvede lui stesso a ripartire i beni tra gli eredi impedendo il sorgere dalla comunione, attraverso un atto chiaramente mortis causa destinato a produrre effetti solo dopo la morte del suo autore. Diversamente, la divisione contrattuale, come visto, è atto inter vivos che promana dalla volontà dei condividenti.

La diversità di trattamento è considerata dalla Corte del tutto ragionevole e compatibile con la ratio della normativa urbanistica che è volta da un lato, ad impedire la commerciabilità degli immobili abusivi attraverso atti tra vivi e, dall’altro, ad assicurare la loro trasmissibilità iure hereditatis a garanzia della certezza dei rapporti giuridici. 

Né la finalità di repressione degli abusi edilizi ne risulterebbe frustrata: sebbene l’erede all’apertura della successione, divenga esclusivo proprietario dell’immobile abusivo assegnato ex art. 734, egli si ritroverà nella medesima posizione giuridica del de cuius e non potrà alienare con atto tra vivi il bene.

Dopo aver confutato i primi due argomenti invocati dalla tesi avversata, la Corte si concentra sull’ultimo, cui viene dedicata la parte più significativa di tutta la sentenza: la critica alla tesi della natura dichiarativa della divisione.

L’efficacia dichiarativa dell’istituto infatti, conduce alla sua esclusione dall’ambito della normativa urbanistica in quanto essa non produrrebbe alcun effetto di trasferimento né di mutamento della realtà esistente, ma si limiterebbe a dichiarare effetti che si erano già prodotti all’apertura della successione: il titolo di acquisto del bene non è nella divisione ma nella vocazione ereditaria.

La tesi sulla natura dichiarativa della divisione era dominante nella tradizionale dottrina (MESSINEO, FRAGALI, GIANNATTASIO, AZZARITI, CICU) e nella giurisprudenza antecedente a detta pronuncia (Cass. n. 9659/2000, Cass. n. 7231/2006; Cass. n. 26351/2017), e trova il principale sostegno nell’efficacia retroattiva dell’atto di divisione sancita nell’art. 757 c.c., a norma del quale ciascun erede è reputato solo ed immediato successore in tutti i beni che compongono la sua quota ed a lui pervenuti per successione, e si considera come se non abbia mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari. 

La retroattività è un fenomeno giuridico cui il legislatore ricorre di frequente nella disciplina della successione mortis causa per ricondurre gli effetti di determinati atti al momento dell’apertura della successione e assicurare in tal modo la continuità della titolarità dei beni tra il defunto e l’erede. 

Per effetto della vis retroactiva pertanto, l’erede è considerato proprietario del bene ereditario ex tunc sin dall’apertura della successione come se la comunione non si fosse mai instaurata. 

La disposizione viene considerata espressione di un principio generale applicabile ad ogni tipo di divisione, in quanto anche la divisione ordinaria produce effetti retroattivi in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1116 c.c.

Dalla retroattività dunque, parte degli autori fa discendere la dichiaratività dell’atto divisorio in quanto l’art. 757 porrebbe due principi: il momento temporale dell’acquisto del condividente viene anticipato ad una fase antecedente; la divisione non dà luogo ad un acquisto e ad una perdita di diritti e quindi nessun trasferimento di diritti si opera per effetto della divisione dall’uno all’altro dei condividenti.

In altre parole, il legislatore non stabilisce (solo) che il coerede deve essere considerato proprietario solitario della porzione assegnatagli sin dal momento in cui si è aperta la successione, bensì che ciascun coerede è considerato unico e immediato avente causa dal de cuius dei diritti compresi nella porzione assegnatagli e che dunque il titolo di acquisto di tali beni è rappresentato, con efficacia ex tunc, dalla successione mortis causa.

La più recente dottrina, condivisa dalla sentenza in commento, contesta il dogma della dichiaratività della divisione (AMADIO, SANTORO PASSARELLI, LUMINOSO, MINERVINI).

La critica condotta dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame riprende gli argomenti già emersi nel dibattito dottrinale e si fonda essenzialmente sul preteso collegamento tra retroattività e dichiaratività.

In primo luogo, si fa notare che la teoria dichiarativa si è storicamente affermata più che per motivi giuridici, per ragioni pratiche sviluppatesi nel diritto intermedio: essendo dovuto un tributo gravoso al sovrano per ogni trasferimento di diritti feudali, per evitare il pagamento del tributo per due volte (all’atto di successione e all’atto di divisione), la dottrina e giurisprudenza riuscirono ad imporre la visione della divisione quale atto ricognitivo, non determinante alcun effetto traslativo ma solo dichiarativo di un diritto già acquisito.

In secondo luogo, sul piano della teoria generale, la Corte, nella sentenza in commento, ritiene incompatibile l’effetto retroattivo con la natura meramente dichiarativa dell’atto, in quanto non potrebbero retroagire gli effetti di un negozio che si limita a dichiarare o ad accertare una situazione giuridica preesistente, ma solo gli effetti di un negozio che muta la realtà; d’altronde, non sono retroattive le sentenze che accertano la nullità di un negozio, mentre sono retroattive quelle che pronunciano l’annullamento o la risoluzione del contratto. Si conclude che la retroattività riguarda esclusivamente gli atti aventi natura costitutiva.

Inoltre, sul piano fattuale, risulta innegabile che la divisione non si limita ad accertare una situazione preesistente ma muta sostanzialmente la realtà giuridica, in quanto ogni condividente perde la proprietà su tutti i beni in comunione e concentra il suo diritto sui beni assegnati. La divisione produce un effetto modificativo della sfera giuridica delle parti, definito anche specificativo, attributivo e distributivo e dunque innegabilmente costitutivo, assimilabile a quello derivante da una normale compravendita di un bene ereditario posta in essere da tutti gli eredi a favore di uno di essi.

Si conclude che la tesi per cui la divisione non potrebbe costituire titolo di acquisto dei beni assegnati può essere accolta solo restringendone il significato al piano puramente economico, non determinando lo scioglimento della comunione un incremento patrimoniale per i condividenti.

Infine, si propone una diversa lettura dell’art. 757 c.c. rispetto a quella fornita dai sostenitori della teoria della dichiaratività.

I concetti di dichiaratività e retroattività devono essere tenuti distinti: dall’art. 757 si può desumere solo che la divisione ha effetti legali retroattivi; in assenza di tale norma l’assegnazione avrebbe effetti ex nunc come qualsiasi altro contratto traslativo. Pertanto il legislatore è intervenuto per assicurare una continuità tra la posizione giuridica del defunto e dell’erede assegnatario mediante la retrodatazione degli effetti di un atto che rimane pur sempre costitutivo, incidendo la vis retroactiva solo sugli effetti e non sulla natura del negozio.

Si aggiunge che l’art. 757 conforta la tesi della costitutività perché non afferma che il condividente “è o diviene immediato ed esclusivo proprietario dei beni assegnati” ma che “è reputato”, deponendo lo stesso testo legislativo per l’idea di una finzione giuridica.

In conclusione quindi, la Corte riconduce la divisione ereditaria nell’alveo degli atti per cui è necessaria l’indicazione del titolo edilizio in quanto atto inter vivos avente natura costitutiva.

La presa di posizione sulla natura della divisione non incide esclusivamente sul profilo dell’applicabilità della normativa urbanistica ma determina ripercussioni su molteplici istituti:

possesso di buona fede di beni mobili e usucapione abbreviata: il riconoscimento della natura costitutiva dell’atto di divisione consente di ricondurre quest’ultimo tra i titoli idonei al trasferimento della proprietà ai fini dell’usucapione di cui agli artt. 1153 e 1159 c.c., idoneità che è esclusa in caso di efficacia meramente dichiarativa dell’atto stesso;

decorrenza del possesso ai fini dell’usucapione: se si attribuisce natura costitutiva all’atto di divisione, il termine da cui decorre l’usucapione è fissato nella stipula dell’atto di divisione stesso, non essendo il possesso maturato nel periodo intercorrente tra la nascita della comunione e la divisione stessa pieno e pacifico; diversamente, se si sostiene la natura dichiarativa, il termine decorre dalla nascita della comunione, quantomeno rispetto ai terzi;

idoneità quale titolo di provenienza: la natura costitutiva dell’atto potrebbe rendere la divisione titolo valido ai fini dell’accertamento della provenienza ventennale del bene da parte del notaio, senza necessità di risalire fino all’atto che ha generato la comunione, se la divisione già copre il ventennio.

Le ripercussioni derivanti dall’intervento della Corte potrebbero essere tuttavia ben più rilevanti a seconda della lettura che si propone della sentenza. 

Se infatti è indiscussa l’affermazione della natura costitutiva della divisione, non altrettanto chiara è la volontà della Cassazione di riconoscere all’istituto in esame un effetto ulteriore rispetto a quello costitutivo, vale a dire un effetto traslativo.

I dubbi sorgono a causa delle contrastanti espressioni utilizzate dalla Corte, che in alcuni punti parla della divisione come atto con “effetto costitutivo sostanzialmente traslativo”, o “assimilabile a quelli di natura traslativa”, e in altri, di atto con “efficacia tipicamente costitutiva e traslativa”.

La differenza tra le terminologie utilizzate non è da sottovalutare perché da essa dipende l’inquadramento della divisione tra gli atti traslativi con le considerevoli conseguenze che tale ricostruzione comporta.

Per comprendere i termini del problema è necessario tener distinti i concetti di effetto costitutivo e di effetto traslativo: l’atto ha effetti costitutivi se produce una modifica sostanziale della realtà giuridica senza limitarsi ad accertare effetti che si erano già prodotti; l’atto ha effetti traslativi quando determina un trasferimento/alienazione di diritti da un soggetto ad un altro.

3. Una proposta di lettura.

Ad una prima lettura, la sentenza in esame potrebbe apparire dirompente, non solo per il superamento del dogma della dichiaratività della divisione, ma soprattutto per l’affermazione della sua natura traslativa. 

In effetti, le conseguenze sarebbero di notevole impatto perché l’inclusione dello scioglimento di comunione tra gli atti alienativi imporrebbe una revisione integrale del sistema della divisione come fino ad oggi è stato impostato, nonché l’applicazione di istituti che, presupponendo la produzione di effetti traslativi dell’atto da cui promanano, erano pacificamente esclusi dall’ambito della divisione. 

Si pensi al sistema delle prelazioni legali, tra cui quella agraria, quella urbana e quella artistica (rispettivamente disciplinate nell’art. 8 L. n. 590/1965 e nell’art. 7 L. n. 817/1971 la prima; negli artt. 38 e 40 L. n. 392/1978 la seconda; nel D. Lgs. n. 42/2004 la terza) e quella nell’edilizia sovvenzionata: sono prelazioni che attribuiscono al soggetto individuato dalla legge il diritto di essere preferito a terzi nel caso in cui il proprietario decidesse di alienare il bene; pur nelle diverse formulazioni, tutti questi tipi di prelazione presuppongono un trasferimento/alienazione del bene, presupposto, finora pacificamente assente nel fenomeno divisorio, ma che oggi potrebbe essere ritenuto sussistente.

Si consideri altresì il divieto di alienazione di cui all’art. 1379 c.c. e i divieti contenuti nella legislazione speciale: si tratta di limitazioni in ordine alla possibilità di disporre del proprio bene per un certo periodo di tempo, le quali, nelle diverse declinazioni, colpiscono gli atti di alienazione; se la divisione fosse considerata atto alienativo, anch’essa sarebbe preclusa in presenza di uno di tali divieti.

Ancora, la natura traslativa della divisione potrebbe comportare la necessità di allegare all’atto l’attestato di prestazione energetica (A.P.E.) di cui al D. Lgs. n. 192/2005, allegazione richiesta per gli atti di trasferimento di immobili a titolo oneroso.

Infine, potrebbero prodursi ripercussioni anche sull’istituto della comunione legale: se si ritenesse che l’assegnazione del bene in sede di divisione costituisca atto di trasferimento, si renderebbe necessario l’intervento del coniuge per escludere l’acquisto dalla comunione ai sensi dell’art 179, lett. f) c.c.: il condividente in comunione legale avrebbe acquisito la quota ereditaria come bene personale ai sensi dell’art. 179, 1° comma lett. b), e successivamente al momento della divisione, scambierebbe propri beni o diritti in cambio di altri (poiché rinuncia a porzioni su alcuni beni, per ottenere il diritto esclusivo su altri beni), con ciò ingenerando l’effetto di cui all’art. 179 comma 2 lett. f) c.c., che richiede l’intervento necessario del coniuge in atto al fine di escludere la caduta del bene in comunione legale.

Nei primi commenti alla sentenza, si è registrata una pluralità di reazioni: a coloro che la considerano una presa di posizione storica sulla natura traslativa della divisione con le considerevoli conseguenze applicative che ne derivano, si affiancano coloro che suggeriscono prudenza sul punto tentando di ridimensionarne o meglio chiarirne la portata con letture diverse.

In particolare, alcuni autori (LEO), pur ammettendo la natura traslativa della divisione, escludono la necessità di cambiamenti radicali nell’applicazione degli istituti prima elencati: si sottrae la divisione ereditaria dall’applicazione della disciplina dell’A.P.E. e delle prelazioni legali in virtù della natura “neutra” dell’atto divisionale che non sarebbe né oneroso né gratuito. Infatti tali istituti presuppongono, oltre alla natura traslativa dell’atto, anche l’onerosità dello stesso, onerosità che mancherebbe nella divisione. 

Tale impostazione, nello sforzo di evitare le gravose conseguenze applicative derivanti dalla presunta natura traslativa della divisione, invoca una configurazione della divisione decisamente minoritaria e poco condivisibile per le ragioni prima illustrate.

Altri invece propongono un’attenta riflessione circa la nozione di atto traslativo nel cui alveo ricondurre la divisione: secondo un autore (ROMANO) il riferimento al fenomeno traslativo può essere accolto con la precisazione per cui il trasferimento è finalizzato alla realizzazione della causa divisionale; esso sarebbe “endodivisionale”, servente rispetto al perseguimento della causa distributiva ed è in detta causa che rinverrebbe la propria giustificazione. Dunque, secondo tale impostazione, la divisione non produrrebbe effetti traslativi come quelli prodotti da una normale compravendita, ma effetti traslativi a causa distributiva (secondo l’Autore “il trasferimento è struttura di per sé neutra, che può essere finalizzata a realizzare l’interesse alla distribuzione patrimoniale, rivelandosi così compatibile con la funzione divisionale”).

La lettura che ci sembra più convincente è quella che, attraverso la lente della ragionevolezza, risulta in grado di conciliare il dato letterale della pronuncia con il significato generale della sentenza e con i principi cardine del nostro ordinamento.

Alla luce di tali criteri, la divisione dovrebbe essere qualificata come un atto ad efficacia costitutiva, sostanzialmente traslativa, come la Corte l’ha espressamente definita, e non un atto traslativo tout court come la compravendita (RIZZI). 

Essa, fermo restando l’effetto costitutivo consistente nella sostanziale modifica della posizione di ciascun condividente da una situazione di comproprietà sul tutto alla proprietà esclusiva su uno o più beni determinati, non produce l’effetto di alienazione né reciprocamente tra i condividenti, né tra la comunione che si scioglie ed i singoli compartecipi. Si tratta dunque di effetti che solo indirettamente sono assimilabili ma non sovrapponibili rispetto a quelli prodotti da un atto autenticamente traslativo. Né tale lettura viene sconfessata dalle imprecisioni terminologiche cui la Corte incorre laddove, dopo aver parlato di atto costitutivo assimilabile a quelli traslativi, si riferisce poi alla divisione quale atto traslativo, avendo già dimostrato la volontà di dar rilievo alle peculiarità della divisione derivanti dalla sua causa attributiva e distributiva che impediscono di considerarla al pari di un atto di alienazione.

D’altronde una conferma si potrebbe trarre prendendo in considerazione lo scopo cui mira la Cassazione nel momento in cui conduce la riflessione sulla natura giuridica della divisione, che è quello di provare che l’atto in esame rientra nella comminatoria della nullità urbanistica: all’uopo è sufficiente dimostrare che la divisione non ha efficacia meramente dichiarativa bensì costitutiva, mentre non è necessario dimostrare che essa sia anche atto traslativo, non essendo tale carattere richiesto ai fini dell’applicabilità della normativa urbanistica. Se la Corte avesse davvero voluto affermare la natura traslativa della divisione avrebbe probabilmente dedicato maggiore attenzione a tale profilo, indagando le ripercussioni di tale affermazione sui vari istituti che ne sarebbero risultati coinvolti, senza limitare la sua indagine alla normativa urbanistica, come invece ha fatto.

Tale lettura consente da un lato di conservare l’innovatività della sentenza e dall’altro di evitare profonde rotture rispetto al passato nei rapporti tra la divisione e gli istituti collegati, prima elencati: non producendo la divisione effetti autenticamente traslativi non vi è né spazio per le prelazioni né necessità di allegazione dell’A.P.E. né violazione del divieto di alienazione.

È in definitiva lo stesso principio di ragionevolezza, che deve informare l’attività dell’interprete, a suggerire una lettura che, nel rispetto delle indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite, consenta di evitare profonde ed incerte rotture rispetto al modo in cui fino ad oggi l’atto di divisione è stato nella prassi redatto.

 

GIURISPRUDENZA:

Cass. civ., Sez. II, 28 novembre 2001, n. 15133, in Giust. Civ. Mass., 2001, 2043:

La nullità prevista dall’art. 17 legge n. 47 del 1985 con riferimento a vicende negoziali relative a beni immobili privi della necessaria concessione edificatoria, tra le quali sono da ricomprendere anche gli atti di scioglimento della comunione di diritti reali relativi ad edifici o loro parti, deve intendersi limitata ai soli ‘atti tra vivi’, rimanendo esclusa, quindi, tutta la categoria degli atti mortis causa e di quelli non autonomi rispetto ad essi tra i quali si deve ritenere compresa anche la divisione ereditaria, quale atto conclusivo della vicenda successoria”.

Cass. civ., Sez. III, 29 marzo 2006, n. 7231, in Mass. Giust. civ., 2006, 3:

Il titolo di acquisto del singolo condividente deve farsi risalire non all’atto divisionale, ma all’originario titolo che ha costituito la situazione di comproprietà, sciolta poi con la divisione; l’atto che la dispone (consista in una sentenza o in un contratto) non comporta un effetto di trasferimento, né reciprocamente tra i condividenti, né tra la comunione che si scioglie ed i singoli compartecipi”.

Cass. civ., Sez. II, 7 novembre 2017, n. 26351, in Mass. Giust. civ., 2017:

Nel caso di specie, la Corte ha specificamente escluso la violazione del divieto di alienazione imposto dal testatore, precisando che l’atto di scioglimento della comunione non potesse qualificarsi come atto di alienazione, così disattendendo la censura proposta dall’appellante in relazione alla erronea interpretazione della disposizione testamentaria e, dunque, concludendo per la riferibilità di tale divieto solo agli atti di alienazione. Tale statuizione è conforme al consolidato indirizzo di questa Corte. Ed invero, l’effetto dichiarativo-retroattivo della divisione — fondato sull’art. 757 cod. civ. e che l’art. 1116 cod. civ. estende al rapporto fra comproprietari che non sono coeredi – comporta che ciascun condividente sia considerato titolare “ex tunc”, e cioè all’apertura della successione, dei beni assegnatigli (Cass. 7231/2006). Non può dunque equipararsi lo scioglimento di comunione, con assegnazione del bene in comproprietà all’altro condividente, all’alienazione del bene medesimo”.

 

DOTTRINA:

  • Amadio, La divisione – Disposizioni generali, in Diritto Civile, diretto da Lipari – Rescigno, II, 1, Milano, 2009, 341;
  • Id., Comunione e apporzionamento nella divisione ereditaria (per una revisione critica della teoria della divisione), in Tradizione e modernità nel diritto successorio, a cura di Delle Monache, Padova, 2007, 249;
  • Azzariti, Le successioni e le donazioni, Napoli, 1990, 671;
  • Capozzi, Successioni e donazioni, Tomo II, a cura di Ferrucci e Ferrentino, Milano, 2015, 1312;
  • Cicu, Le successioni per causa di morte, in Dir. civ. e comm., a cura di Cicu-Messineo, Milano, 1961, vol. XLII, 415;
  • Diener, Il contratto in generale, Milano, 2015;
  • Forchielli-Angelone, Della divisione, Art. 713-768, in Commentario Scialoja Branca, II, Delle successioni, Bologna-Roma, 2000;
  • Leo, Prime riflessioni sulla sentenza della Cassazione SS.UU. 7 ottobre 2019 n. 25021, di M. Leo, A. Lomonaco, E. Fabiani e L. Piccolo, in CNN Notizie del 21 ottobre 2019;
  • Luminoso, Divisione e sistema dei contratti, in Dir. civ., 2009, I;
  • Minervini, Divisione contrattuale ed atti equiparati, Napoli, 1990;
  • Mirabelli, Divisione (diritto civile), in Dig. It., VI, Torino, 1960, 33;
  • Mora, Il contratto di divisione, Milano, 1995;
  • Palazzo, Le successioni, in Dir. priv., a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1996;
  • Romano, Natura giuridica della divisione ereditaria: la posizione delle Sezioni Unite, in Notariato, 2019, 6, 671;
  • Rizzi, La divisione immobiliare nella sentenza n. 25021-19 delle Sezioni Unite della Cassazione, in federnotizie.it;
  • Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 1973, Napoli.

 

Giulia Torrelli