Dissertazione sulla natura giuridica dell’indegnità alla luce del nuovo art. 463 bis cod. civ.

L’indegnità dà luogo ad un’incapacità a succedere o ad una forma di esclusione giudiziale dalla successione? La dottrina è divisa tra i due orientamenti, entrambi sostenuti autorevolmente con argomenti convincenti. La giurisprudenza sembra invece prevalentemente orientata, per ragioni pratiche, a favore della tesi dell’esclusione dalla successione. Il dibattito non suscita solo un interesse teorico e dottrinario ma ha rilevanti ripercussioni pratiche in ordine alla disciplina applicabile. Le conclusioni cui dottrina e giurisprudenza sono giunte meritano forse un ripensamento a seguito dell’introduzione, all’inizio del 2018, dell’art. 463 bis disciplinante la nuova fattispecie della sospensione dalla successione a carico di chi sia indagato per omicidio nei confronti del de cuius.
Il contributo si concluderà con un’analisi del rapporto tra gli istituti dell’indegnità e della diseredazione, alla luce del nuovo art. 448 bis, in tema di diseredazione del genitore.

SOMMARIO: 1. NOZIONE E DISCIPLINA DELL’INDEGNITÀ A SUCCEDERE 2. IL NUOVO ART. 463 BIS. 3. INDEGNITÀ E DISEREDAZIONE A CONFRONTO.

1. NOZIONE E DISCIPLINA DELL’INDEGNITÀ A SUCCEDERE.

L’istituto dell’indegnità, aventi origini antiche risalenti al diritto romano, trova una regolamentazione positiva nel nostro ordinamento agli artt. 463 e ss. c.c., di recente modificata e ampliata. Il riferimento è all’art. 5 della legge n. 4 dell’11 gennaio 2018, che ha introdotto all’interno del codice un nuovo articolo, il 463 bis, rubricato “Sospensione dalla successione”, che prevede la fattispecie inedita della sospensione di alcune categorie di soggetti dalla successione della persona che essi hanno ucciso o tentato di uccidere, fino alla decisione del giudice penale; la sentenza di condanna determina automaticamente l’esclusione dalla successione.
La novità sostanziale introdotta, e la formulazione letterale della nuova norma, che nel prosieguo verrà analizzata, potrebbe riaprire il dibattito, in realtà mai sopito, sorto in dottrina intorno alla natura giuridica dell’istituto dell’indegnità, il quale, sebbene di scarsa applicazione pratica, è fonte di notevole interesse dottrinario, generando riflessioni aventi ripercussioni sull’intero sistema successorio italiano.
Per inquadrare la natura giuridica dell’istituto in esame, occorre ripercorrere brevemente la genesi dell’indegnità.
Essa è nata nell’ordinamento romano con le caratteristiche, che tutt’ora conserva, di sanzione rivolta ad un chiamato all’eredità che si è reso colpevole di comportamenti riprovevoli nei confronti del de cuius; comportamenti che determinano la sua esclusione per legge dalla successione del soggetto leso, per evitare che chi abbia perpetrato nei confronti di questo atti illeciti, spesso di rilevanza penale, possa beneficiare della successione dello stesso.
La definizione di indegnità come sanzione va approfondita: si tratta più in particolare, di una sanzione civile di fonte pubblicistica.
Da un lato, non si tratta di una sanzione penale perché l’esclusione è totalmente svincolata da un eventuale giudizio penale (ad eccezione dell’ipotesi di cui all’art. 463 n. 3).
Dall’altro, è una sanzione di fonte pubblicistica e non privatistica, trovando il suo fondamento nella volontà della legge, sensibile all’esigenza di evitare il prodursi di effetti patrimoniali vantaggiosi per chi è indegno.
Il codice del 1865 ha disciplinato l’istituto dell’indegnità all’art. 725, considerandola una forma d’incapacità a succedere.
Il codice vigente invece, mutandone la collocazione, ha trattato l’indegnità in un capo a parte, per rafforzare la configurazione della stessa quale causa di esclusione della successione, conformemente alla tradizione romanistica e al noto brocardo “indignus potest capere sed non potest retinere” (l’indegno può ricevere ma non può conservare).
Più nel dettaglio, l’art. 463 elenca le sette cause tassative, insuscettibili di interpretazione analogica, che determinano l’esclusione, e che possono essere distinte in due gruppi: i fatti potenzialmente lesivi della personalità fisica e morale del de cuius (art. 463, nn. 1, 2, 3, 3 bis); i fatti lesivi della libertà testamentaria (art. 463, nn. 4, 5, 6).
Rientrano nella prima categoria tutti i comportamenti imputabili a chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere il de cuius, o il coniuge, o un discendente o un ascendente del medesimo, purché non ricorra una causa che escluda la punibilità a norma della legge penale (n. 1). A seguito dell’entrata in vigore della Legge sulle unioni civili (L. 20 maggio 2016 n. 76, c.d. Legge Cirinnà), la stessa norma è applicabile all’omicidio, o tentato omicidio, ai danni dell’unito civile del de cuius, in virtù del rinvio che il comma 21 dell’art. 1 della suddetta legge fa al capo del codice civile dedicato all’indegnità.
Come la giurisprudenza ha precisato (Cass. Civ., 22 dicembre 1984, n. 6669), ai fini della pronuncia d’indegnità è necessario il dolo dell’autore, rimanendo esclusa dall’ambito di applicazione dell’art. 463 l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale e quella dell’omicidio colposo.
Il giudizio civile di indegnità è autonomo rispetto al giudizio penale eventualmente promosso, in quanto prosegue anche in caso di morte del reo e non necessita di una pronuncia di condanna penale, a differenza di quanto previsto per il caso di cui al n. 3, che considera indegno chi ha denunziato una di tali persone (defunto o i suoi parenti) per reato punibile con l’ergastolo o con la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denunzia è stata dichiarata calunniosa in giudizio penale; ovvero ha testimoniato contro le persone medesime imputate dei predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata, nei confronti di lui, falsa in giudizio penale.
È parimenti indegno chi ha commesso un fatto al quale la legge dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio (n.2): si tratta di un’ipotesi residuale, limitata all’uccisione avvenuta in un duello irregolare (e secondo Azzariti anche l’istigazione al suicidio nei confronti di persona incapace o minore di quattordici anni).
Maggiore interesse suscita l’ipotesi di cui al n. 3 bis dell’art. 463, introdotta dalla L. 8 luglio 2005, n. 137 (poi modificata nel 2013), che considera indegno “chi, essendo decaduto dalla potestà genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta a norma dell’art. 330 non è stato reintegrato nella potestà alla data di apertura della successione medesima”.
La norma, necessitando di una lettura congiunta con il nuovo art. 448 bis in materia di diseredazione, verrà analizzato del dettaglio più avanti.
Passando alla seconda categoria di cause di indegnità, è escluso dalla successione chi abbia compromesso la libertà testamentaria del de cuius, inducendolo con dolo o violenza a fare, revocare o modificare il testamento, o l’ha impedito (n. 4), o ha soppresso, celato o alterato il testamento stesso (n. 5), o infine ha formato o utilizzato un testamento falso (n. 6). La giurisprudenza in materia ha precisato che i vizi elencati devono aver prodotto i loro effetti sul testamento: non si ha indegnità se il testamento sia stato revocato, modificato o sia nullo (Cass. Civ., 30 maggio 1984, n. 3309).
Passando all’analisi della disciplina applicabile, quest’ultima risulta fortemente influenzata dalla tesi che si sposa in ordine alla natura giuridica dell’istituto. Infatti, la diversa teoria accolta comporta ripercussioni in merito alla posizione assunta e ai poteri esercitabili dall’indegno, all’azione esercitabile contro costui e alla natura della sentenza eventualmente pronunciata contro lo stesso.
A tal proposito, sono due i principali orientamenti, entrambi autorevolmente sostenuti, circa la natura giuridica dell’istituto: secondo alcuni è forma d’incapacità a succedere, secondo altri è causa di esclusione dalla successione.
La prima tesi (Galgano, Cicu, Bianca, Barbero, Ferri, Coviello, Palazzo) riconduce l’indegnità nell’alveo delle cause d’incapacità relativa a succedere. Come noto, nel nostro sistema giuridico non esistono cause d’indegnità a succedere “assolute”, in quanto l’art. 462 c.c. riconosce la capacità di succedere a tutte le persone fisiche nate o concepite al tempo dell’apertura della successione; inoltre, in caso di successione testamentaria, possono ricevere anche i nascituri, non concepiti di una determinata persona vivente. Quanto alla capacità a ricevere delle persone giuridiche e in generale di ogni tipo di ente, essa è implicitamente riconosciuta dall’art. 473 c.c., che prevede la necessità dell’accettazione con beneficio d’inventario delle eredità devolute alle persone giuridiche e agli enti.
Posta l’assenza di un’incapacità assoluta a succedere, esistono nel nostro ordinamento casi di incapacità relativa: si fa riferimento all’art. 411 c.c., che considera incapace l’amministratore di sostegno, rispetto all’eredità dell’assistito; l’art. 596 c.c. riferito all’incapacità del tutore e protutore, l’art. 597 c.c. riferito all’incapacità del notaio, dei testimoni e dell’interprete.
Ebbene, secondo questa prima teoria, l’indegnità darebbe luogo ad un’ulteriore causa di incapacità a succedere: l’indegno, in quanto incapace, non diviene mai delato all’eredità e l’eventuale sentenza del giudice ha mera natura dichiarativa, limitandosi ad accertare un impedimento che ha già prodotto i suoi effetti per legge.
Gli argomenti su cui tale teoria si fonda guardano, in primo luogo alla lettera della legge: l’art. 463 infatti esordisce con l’espressione “è escluso” e non “può essere escluso”, e ciò sembra presupporre un’esclusione decisa per legge, e non un’esclusione eventuale discendente da un provvedimento giudiziale.
Inoltre, l’articolo successivo, relativo all’obbligo alla restituzione dei frutti, è ulteriore argomento a conforto della teoria dell’incapacità, in quanto l’indegno è tenuto a restituire i frutti percepiti (ma non quelli percipiendi) sin dalla data di apertura della successione, come se non fosse mai stato chiamato.
Secondo tale prospettiva, l’incapacità impedisce la delazione per legge, limitandosi la sentenza giudiziale ad accertare gli effetti già prodotti per legge. La relativa azione giudiziale dunque è un’azione di petizione dell’eredità e, in quanto tale, imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione a favore dell’indegno possessore; non è rinvenibile nel codice l’esistenza di un’autonoma azione d’indegnità.
Nell’ipotesi in cui l’indegno muoia prima di esprimere la volontà di accettare o meno l’eredità, non si verifica trasmissione della delazione a favore dei suoi eredi (art. 479 c.c.).
Tale ricostruzione è criticata dai fautori della teoria, prevalente in giurisprudenza (Cass., 17 luglio 1974, n. 2145; Cass., 5 marzo 2009, n. 5402; Cass., 29 novembre 2016, n. 24252), che guarda all’indegnità come causa di esclusione dalla successione operante solo a seguito della pronuncia (costitutiva) da parte del giudice (in dottrina: Barassi, Capozzi, Cariota Ferrara, Coviello, Salis, Schlesinger).
Gli indici normativi a conforto della tesi in commento sono molteplici: in primo luogo, segnali inequivoci provengono dalla Relazione al Codice secondo cui “Il criterio informatore dei progetto è che l’’indegnità non determina una vera e propria incapacità, ostativa all’acquisto ereditario, ma è una causa di esclusione operativa in virtù della sentenza del giudice, secondo il principio per cui indignus potest capere sed non potest retinere”.
L’art. 463 inoltre parla espressamente dell’indegnità quale causa di esclusione ed è collocato, a differenza che nel codice previgente, in un capo a parte, separato da quello disciplinante l’incapacità.
Aderendo a questa diversa prospettiva, l’indegno è delato all’eredità dal momento di apertura della successione fino alla sentenza che pronuncia l’indegnità; la sua posizione è analoga a quella del chiamato sotto condizione risolutiva. L’esistenza di una delazione immediata a favore dell’indegno comporta il riconoscimento in capo a quest’ultimo dei diritti discendenti dalla delazione: i poteri conservativi di cui all’art. 460 e il diritto di accettare l’eredità.
Nel caso l’indegno muoia prima di accettare l’eredità, si verificherà la trasmissione della delazione a favore dei suoi eredi.
Dopo l’accettazione invece, egli è considerato erede, e potrà esperire le eventuali azioni di riduzione e petizione d’eredità; una volta intervenuta la sentenza di indegnità, la delazione è caducata e opereranno gli ordinari meccanismi della sostituzione, rappresentazione, dell’accrescimento, e infine, della delazione ex lege.
L’esclusione dunque, opera solo a seguito della pronuncia giudiziale d’indegnità; il relativo giudizio deve essere instaurato per mezzo di un’apposita azione volta a far annullare l’acquisto dell’eredità da parte dell’indegno, azione che si prescrive nell’ordinario termine di dieci anni dall’apertura della successione, o dal giorno in cui il fatto, generante l’indegnità, è stato commesso, se successivo all’apertura della successione (ad esempio l’utilizzo di un testamento falso) (Cass., 29 novembre 2016, n. 24252).
Si discute in ordine all’efficacia della pronuncia di indegnità anche a favore di chi non la domandi: la Cassazione è prevalentemente orientata a favore del litisconsorzio necessario, sul presupposto che al giudizio debbano partecipare tutti i potenziali chiamati all’eredità, dal momento che l’azione mira all’accertamento dello status di erede, che è posizione unitaria, non potendo sussistere nei confronti di alcuni e per altri no (Cass., 12 luglio 1986, n. 4533).
La dottrina ha invece assunto posizioni diverse sulla base della natura personale dell’azione; con la conseguenza che la sentenza giova solo a colui che l’ha chiesta, nei limiti della quota di spettanza, mentre la restante parte dell’eredità non reclamata rimarrà in titolarità dell’indegno.
La legittimazione attiva all’azione spetta, secondo l’orientamento preferibile, solo ai chiamati in subordine, che divengono delati a seguito della pronuncia e che dunque, hanno tacitamente accettato, promuovendo l’azione (d’altronde essi sono mossi dall’interesse a conseguire l’eredità): non è ritenuto quindi sufficiente un interesse meramente morale alla pronuncia d’indegnità.
Infine, le due teorie divergono in ordine al destino degli atti medio tempore compiuti dall’indegno, prima della pronuncia di indegnità. Se per la teoria dell’incapacità, tutti gli atti sono inefficaci, perché compiuti dal non legittimato, i fautori della teoria dell’esclusione distinguono: gli atti a titolo gratuito sono destinati a cadere; a quelli a titolo oneroso si applica la disciplina degli acquisti dall’erede apparente di cui all’art. 534 c.c.
Il dibattito sorto in dottrina circa la natura giuridica dell’istituto in esame potrebbe assumere nuovi connotati a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 463 bis.

2. IL NUOVO ART. 463 BIS.

L’art. 463 bis, entrato in vigore nel febbraio 2018, dispone, nei primi due comma, che “Sono sospesi dalla successione il coniuge, anche legalmente separato, nonché la parte dell’unione civile indagati per l’omicidio volontario o tentato nei confronti dell’altro coniuge o dell’altra parte dell’unione civile, fino al decreto di archiviazione o alla sentenza definitiva di proscioglimento. In tal caso si fa luogo alla nomina di un curatore ai sensi dell’articolo 528. In caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, il responsabile è escluso dalla successione ai sensi dell’articolo 463 del presente codice.
Le disposizioni di cui al primo comma si applicano anche nei casi di persona indagata per l’omicidio volontario o tentato nei confronti di uno o entrambi i genitori, del fratello o della sorella”.
La norma prevede l’esclusione dalla successione del coniuge, anche separato, e dell’unito civile, indagati per omicidio nei confronti dell’altro coniuge o dell’altro unito, finché non venga accertata in sede penale l’innocenza. Se interviene un provvedimento di condanna (o di patteggiamento), tali soggetti sono automaticamente esclusi, senza che sia necessaria una sentenza d’indegnità ad opera del giudice civile.
La ratio legis è senz’altro apprezzabile: si vuole evitare che a seguito dell’apertura della successione, il chiamato, legato da stretti vincoli affettivi al de cuius, e indagato per omicidio ai danni di questo, possa ricevere vantaggi patrimoniali dalla successione, in attesa di una pronuncia d’indegnità.
Le modalità operative della nuova fattispecie inducono a ritenere che il legislatore abbia implicitamente sposato la tesi dell’indegnità quale forma di incapacità a succedere.
Molteplici indici depongono a favore di tale conclusione: in primo luogo, l’immediata sospensione di ogni diritto sulla successione, che impedisce quindi la delazione, e l’automatica esclusione senza necessità di una pronuncia giudiziale in tal senso, richiamano alla mente i caratteri dell’indegnità prima esposti, quale forma d’incapacità.
Inoltre, un altro indizio proviene dalla formulazione del nuovo articolo 537 bis nel codice di procedura penale, introdotto dalla medesima legge di riforma, secondo cui “Quando pronuncia sentenza di condanna per uno dei fatti previsti dall’articolo 463 del codice civile, il giudice dichiara l’indegnità dell’imputato a succedere”. L’utilizzo del verbo “dichiara” riferito all’organo giudicante, lascia intendere la natura meramente dichiarativa della relativa pronuncia.
Infine, se si aderisse alla teoria dell’indegnità quale causa di esclusione della successione, si giungerebbe al paradosso per cui, nei confronti di un soggetto indagato per omicidio nei confronti del coniuge (o dell’unito), opererebbe la sospensione dalla sua successione, mentre, nei confronti dello stesso soggetto già condannato per il medesimo reato al momento della apertura della successione, opererebbe la delazione in suo favore finché non intervenga la sentenza costitutiva di indegnità.
Tuttavia, la norma potrebbe prestarsi ad un’interpretazione alternativa. La necessità avvertita dal legislatore di sospendere espressamente il sospetto reo dalla successione, rimarrebbe priva di utilità se si inserisse in un sistema che già prevede che l’indegnità, quale forma di incapacità a succedere, impedisce immediatamente la delazione. In altre parole, non sarebbe stato necessario introdurre l’art. 463 bis, se già dall’art. 463 possa essere dedotto che chi attenta alla vita del de cuius sia incapace di succedergli e non possa vantare alcun diritto sulla successione.
Di conseguenza, per garantire una portata utile e innovativa alla norma, si dovrebbe riconoscere che la stessa ha introdotto una fattispecie inedita e particolare di indegnità, aventi le medesime caratteristiche di una causa di incapacità a succedere, e che va ad aggiungersi alle ipotesi tradizionali di esclusione dalla successione.
In definitiva, la novità normativa, se risulta apprezzabile quanto all’intento di rafforzare il sistema dell’indegnità con esclusione immediata di qualsiasi beneficio a carico di un soggetto immeritevole, e quanto alla sensibilità dimostrata nell’includere nella dizione della norma anche l’unito civile, non brilla per chiarezza, essendo rimasta inascoltata l’auspicabile opportunità di una presa di posizione legislativa sul problema.
Infine, quanto al profilo del curatore nominato in attesa del provvedimento finale, la norma rimanda alle norme sull’eredità giacente di cui all’art. 528 c.c. Tale istituto, che in questo contesto non è possibile trattare, ma che merita un apposito approfondimento, trova luogo quando il chiamato non ha accettato l’eredità (ma può ancora farlo) e non è nel possesso dei beni ereditari; in tale situazione, può essere nominato un curatore cui affidare l’amministrazione dell’asse ereditario. Si discute in ordine alla necessità che, ai fini della nomina del curatore di cui all’art. 463 bis, siano sussistenti tutti i presupposti di cui all’art. 528, e in particolare la mancanza del possesso dei beni ereditari nel chiamato. Al fine di riconoscere una portata autonoma alla previsione del nuovo articolo, sembra preferibile propendere per la risposta negativa, non essendo indispensabile il rispetto dei presupposti della giacenza in generale.
Altro profilo discusso, prima dell’entrata in vigore dell’art. 463 bis, riguardava l’ammissibilità di una giacenza dell’eredità pro quota: era cioè dubbio se in presenza di più chiamati all’eredità, di cui solo qualcuno aveva accettato, fosse possibile nominare un curatore per l’amministrazione delle quote dei chiamati non accettanti.
Il dilemma è stato superato proprio grazie all’art. 463 bis che ha implicitamente riconosciuto l’ammissibilità della curatela pro quota, limitata in particolare, alla quota del chiamato sospeso dall’eredità.

3. INDEGNITÀ E DISEREDAZIONE A CONFRONTO.

Il binomio indegnità-diseredazione è nato nel diritto romano che distingueva nettamente la prima, considerata sanzione di fonte pubblicistica, dalla seconda, espressione della volontà privata del testatore di escludere dalla propria successione soggetti considerati immeritevoli.
La stessa contrapposizione, con i medesimi caratteri, è stata conservata nel nostro ordinamento.
Non potendo ripercorrere l’evoluzione che l’istituto della diseredazione ha subito nel corso degli anni, è sufficiente ricordare l’importante approdo della Corte di Cassazione (Cass., n. 8352 del 25 maggio 2012) che ha riconosciuto autonoma rilevanza alla clausola meramente diseredativa di un successibile legittimo, che esaurisca il contenuto testamentario; non è all’uopo necessario dedurre dalla diseredazione di un soggetto, un’implicita volontà del testatore di istituire eredi altri soggetti.
Oramai pacifica è dunque l’ammissibilità di un testamento che contenga quale unica disposizione la diseredazione di un successibile legittimo.
Diversamente, non è ammessa la diseredazione di un legittimario, vista l’intangibilità della quota di legittima agli stessi riservata ai sensi dell’art. 536 ss.: la dottrina è divisa circa la conseguenza dell’inserimento di una clausola di diseredazione di un legittimario, optando alcuni per la nullità, e altri per l’esperibilità dell’azione di riduzione.
Ciò che rileva ai fini del presente contributo è l’introduzione dell’art. 448 bis nell’ambito della riforma di filiazione, volta a completare la parificazione della posizione dei figli nati all’interno e al di fuori del matrimonio. La norma testualmente recita “Il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi, non sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla responsabilità genitoriale e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’articolo 463, possono escluderlo dalla successione”.
La disposizione sembra introdurre una prima timida apertura nei confronti della diseredazione del legittimario, potendo il genitore rivestire tale qualifica nell’ipotesi di assenza di discendenti del de cuius.
Il profilo che desta le maggiori difficoltà risiede nel coordinamento con l’art. 463, cui la norma fa riferimento. In particolare, il figlio può diseredare il genitore decaduto dalla responsabilità genitoriale al di fuori dei casi di indegnità; la disposizione va letta congiuntamente con il comma 3 bis dell’art. 463, che consente la pronuncia d’indegnità a carico del genitore che, decaduto dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 330 c.c., non sia stato successivamente reintegrato.
Ai fini della comprensione del difficile coordinamento, è opportuno delineare l’ambito di applicazione dell’art. 463, comma 3 bis: la norma considera indegno il genitore decaduto da responsabilità genitoriale a norma dell’art. 330. La prima questione che si pone riguarda la limitazione dell’indegnità alle ipotesi di decadenza ex art. 330 o la sua estensione a tutte le ipotesi di decadenza da responsabilità genitoriale. Essendo le cause d’indegnità del tutto eccezionali e tassative, è preferibile sostenere un’interpretazione restrittiva della norma, limitandola dunque ai casi in cui il giudice pronuncia la decadenza “quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio” (art. 330 c.c.).
In secondo luogo, è dubbio se l’indegnità possa essere pronunciata solo in caso di decesso del soggetto ancora in minore età, o se sia pronunciabile anche quando il soggetto muoia dopo aver raggiunto la maggiore età. Come sostenuto da accorta dottrina (Bonilini, Finocchiaro, Albanese), per evitare di restringere la previsione ad ipotesi del tutto marginali e svuotarla di utilità, si deve considerare indegno anche il genitore, decaduto da responsabilità genitoriale, sopravvissuto al figlio deceduto in maggiore età.
In definitiva quindi, l’art. 463, comma 3 bis, consente la pronuncia d’indegnità contro il genitore decaduto da responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c., sebbene il figlio sia morto in maggiore età.
Chiarito l’ambito di applicazione della norma, è possibile approfondire la connessione con il citato art. 448 bis.
Secondo una prima lettura, l’ambito dell’art. 448 bis andrebbe limitato ai casi in cui il genitore decada da responsabilità genitoriale per cause diverse da quelle previste dall’art. 330 c.p.: la norma dunque consentirebbe la diseredazione del genitore nelle sole ipotesi previste dal codice penale in cui la decadenza costituisca pena accessoria alla condanna per taluni delitti, quali la condanna all’ergastolo (art. 32 c.p.) e il reato di mutilazione degli organi genitali femminili, di cui all’art. 583 bis, quarto comma, c.p.; rimangono escluse quelle fattispecie come i reati contro lo stato di famiglia che prevedono già a monte, quale effetto penale della condanna, la perdita dei diritti successori nei confronti della persona offesa.
Secondo un’altra lettura, più estensiva, ma meno fedele al dato letterale, la norma consentirebbe l’esclusione del genitore che, al di là delle ipotesi di indegnità, abbia violato i doveri familiari, pur non essendo conseguentemente decaduto da responsabilità genitoriale.
Al di là della specifica interpretazione che si predilige, la norma offre un segnale significativo, inserendosi nell’attuale tendenza legislativa a temperare la rigidità delle norme a tutela della successione necessaria, non più adeguate rispetto al mutato assetto dei rapporti socio-economici della società contemporanea.

GIURISPRUDENZA

In tema di indegnità quale causa di esclusione dalla successione:
Cass. Civ., 5 marzo 2009, n. 5402, in Giust. Civ. Mass., 2009, 3, 396: L’indegnità a succedere di cui all’art. 463 cod. civ pur essendo operativa “ipso iure”, deve essere dichiarata con sentenza costitutiva su domanda del soggetto interessato, atteso che essa non costituisce un’ipotesi di incapacità all’acquisto dell’eredità, ma solo una causa di esclusione dalla successione.
Precedenti conformi: Cass. Civ., 17 luglio 1974, n. 2145, in Giur. it., 1976, c. 144; Cass. Civ., 27 giugno 1973, n. 1860, in Mass. Giust. civ., 1973, 990; Cass. Civ., 23 novembre 1962, n. 3171, in Foro it., 1962, I, c. 2056; Cass. civ., 20 aprile 1942, n. 1080, in Rep. Foro it., 1942, voce Successione, n. 93.
Cass. Civ., 29 novembre 2016, n. 24252: Nell’ipotesi di azione volta ad ottenere la pronunzia dell’indegnità a succedere in ragione della formazione o dell’uso di un testamento falso (art. 463 n. 6 c.c.), il termine decennale di prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il soggetto legittimato ad esercitare la stessa abbia la ragionevole certezza e consapevolezza sia della circostanza che una parte pretenda di essere erede e si qualifichi come tale in forza di un testamento che si ha motivo di ritenere falso, sia del proprio diritto a conseguire l’eredità o il legato, in virtù di indici oggettivamente univoci idonei a determinare detto convincimento in una persona di normale diligenza, il cui apprezzamento è riservato alla valutazione del giudice del merito.

In tema di singole cause d’indegnità:
Cass. Civ., 30 ottobre 2008, n. 26258, in Giust. Civ. Mass., 2008: La dichiarazione d’indegnità a succedere, ai sensi dell’art. 463, n. 4), c.c., per captazione della volontà testamentaria, richiede la dimostrazione dell’uso, da parte sua, di mezzi fraudolenti tali da trarre in inganno il testatore, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso in cui non si sarebbe spontaneamente indirizzata.
Cass. Civ., 9 aprile 2008, n. 9274, in Guida al Diritto, 2008, 21, 46: L’ipotesi di indegnità a succedere prevista dall’art. 463, n. 5. c.c. rientra tra quelle dirette a ledere la libertà di testare e, conseguentemente, richiede un comportamento che abbia impedito il realizzarsi delle ultime volontà del testatore, contenute nella scheda celata. Deve, pertanto, escludersi l’applicazione della norma, quando l’esistenza del testamento non può essere occultata, perché redatto in forma pubblica, e quando colui contro il quale si rivolge l’accusa d’indegnità sia il successore legittimo e l’erede ivi designato.

In tema di diseredazione:
Cass. civ., n. 8352 del 25 maggio 2012, in Giust. Civ., 2012, 1164: Per diseredare non è necessario procedere ad una positiva attribuzione di beni, nè – sulla scorta dell’espediente che escludere è istituire – alla prova di un’implicita istituzione. In sostanza, la clausola di diseredazione integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore, sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem del proprio patrimonio. Il “disporre” di cui all’art. 587 c.c., co. 1, può dunque includere, non solo una volontà attributiva e una volontà istitutiva, ma anche una volontà ablativa e, più esattamente, destitutiva.

DOTTRINA
A. ALBANESE, L’indegnità a succedere dopo la l. 8 luglio 2005, n. 137, in Contr. e Impr., 3, 854; L. BARASSI, Le successioni per causa di morte, Milano, 1947; C.M. BIANCA, Diritto civile, 2, Le successioni, Milano, 2015; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, a cura di Ferrucci e Ferrentino, Milano, 2015; L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, Camerino, 2011; A. CICU, Successioni per causa di morte, Milano, 1961; L. FERRI, Successioni in generale, Artt. 456-511, in Commentario del Codice Civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1972; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, 2004; E. NARDI, Indegnità, in Noviss. Dig. It., Torino, 1962; A. PALAZZO, Le successioni, Milano, 2000; R.O. SALÈ, La decadenza dalla potestà genitoriale quale (nuova) causa d’indegnità a succedere, in Fam. Pers. Succ., 2010, 11; L. SALIS, Indegnità a succedere, in Studi in onore di Messineo, Milano, 1959; U. SALVESTRONI, Della capacità di succedere. Dell’indegnità, in Il codice civile, Commentario, fondato da Schlesinger e diretto da Busnelli, Milano, 2003.

Giulia Torrelli